Rita R. Florit – Passo nel fuoco.
Edizioni d’If, 2010; collana: i miosotìs / n. 47 – Le forme dell’amore
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Nella direzione del fuoco
Mani mi ridisegnano i confini
da nuove agrimensure ritemprata
“Ieri ho sognato di te. Non ricordo quasi più i singoli fatti, so soltanto che di continuo ci trasformavamo l’uno nell’altro, io ero tu, tu eri io. Infine, non so come, prendesti fuoco, ma ricordai che il fuoco può essere soffocato coi panni, afferrai un vecchio abito e con questo mi misi a batterti. Ma qui ricominciarono le metamorfosi e si arrivò al punto che tu non c’eri più, mentre ero io che ardevo e io ancora che battevo con l’abito. Ma ciò non serviva a nulla e così era confermato il mio vecchio sospetto che queste cose non valgono contro il fuoco. Intanto però erano arrivati i pompieri e nonostante tutto tu in qualche modo fosti salvata. Ma eri diversa da prima, spettrale, disegnata col gesso nel buio e, inanimata o forse soltanto svenuta per la gioia di essere salva, mi cadesti tra le braccia. Ma anche qui si riscontrò l’incertezza della trasformazione perché forse ero io che cadevo tra le braccia di qualcuno.” (Kafka, Lettera a Milena, settembre 1920)[2]
Passo nel Fuoco è parola corporea che non si appaga. Una poesia che origina dalla voce, dal cuore e dal sangue, fra“il vuoto aperto del desiderio”– distanza che m’uncina allo scavo sonoro – e “il compimento”. La scrittura come il ponte tra me e l’altro, tra due sponde di desiderio.
Derrida riprende una locuzione di Mallarmé “fra il desiderio e il compimento”, e osserva che “non c’è differenza tra il desiderio e la soddisfazione”. “La non-presenza, vuoto aperto del desiderio, e la presenza, pienezza del godimento sono la stessa cosa.” “Il compimento si riassume nel desiderio, il desiderio è il compimento che resta, sempre mimato, un desiderio”[3]. La parola poetica “misura la distanza che m’uncina allo scavo sonoro”, “tra la distanza del desiderio e il compimento”. Il desiderio è desiderio dell’altro, è questa assenza, ma la lingua può avanzare solo nella presenza, lasciandosi pervadere dal senso.La scrittura come il ponte tra me e l’altro, riattraversabile, scarto tra due sponde di desiderio che si colma solo di significato, “è il desiderio umano che suppone la parola”[4]. L’io e l’altro si attraversano nella verticalità della parola tesa all’infinito. Un congiungersi attraverso la voce: “M’avvito alla voce”, “e la tua voce crepita m’avvolge” “Se roca intridi d’estasi la voce”.
La notte come un filo si dipana / e da un estremo all’altro noi restiamo / disgiunti eppure avvinti / al filo inesorabile richiamo / chiamami da lontano / da lontano ti chiamo / mio fuoco incendio rogo / e la tua voce crepita m’avvolge / consunta sto rappresa / fremendo per la voglia che mi sale / e ancora torna a ravvivar la brace”
La voce giunge da lontano, “chiamami da lontano”, da un luogo che sembra d’oltretomba, “si impone e oscilla lo spettro maschile con voce telefonica”[5]. La voce umana che, come nella pièce omonima di Cocteau, è il filo che non si può spezzare (o stringere), rifluisce in sangue, può solo farsi corpo o annullare dal suo interno la vita, “ho il filo intorno al collo. Ho la tua voce intorno al mio collo…”[6]
“Inassolvibile fu dichiarata d’ogni incarico fu sollevata Cercala ancora nell’esatto punto dolente di dolcezza dolorosa”.Non si diventa poeti senza aver accumulato dentro di sé sufficiente dolore, e la necessità di espellerlo con uno sforzo della volontà, di trasfigurarlo nelle parole. Come se esistesse “une douleur raisonnable”, un dolore ragionevole, giustificato. Un dolore che ci assolve e assolve l’Altro dall’amore non dato, trattenuto dentro sé. Ecco indispensabile allora la ricerca, “Cercala ancora nell’esatto punto di dolcezza dolorosa”. “Cercala ancora” significa cercala sempre là dove sai lei è, nel fluire del sangue, palpito del cuore divorato. Nel punto di dolore dove converge la dolcezza dell’anima, infine pacificata, suprema sintesi dell’universale e del particolare.
“Profumare gli stracci della carne non ancora crisalide quiescente non ancora rosa di notte arresa”, saldatura tra la carne e le metamorfosi della natura vegetale, ibrido di natura e umanità faticosamente conseguita. Crisalide nel suo guscio e rosa che non si è ancora chiusa, arresa alla notte.
Fu inassolvibile, creatura inaffidabile, renitente alla cura: cristallo di neve “lacerataricomposta”, tollerata.
“Cercala infine nella tua memoria di trapassati prossimi universi”. Il trapassato prossimo universo, questa metafora di un mondo dilaniato dal tempo dell’attesa e del ricordo.
La poesia di Rita R. Florit, lo si può intuire, non è abbandono sensuale; è sforzo incessante per decifrare il mondo “spando dal cuore notturne sillabe sonore”, uno sforzo che si paga quando il cuore diventa “l’organo del desiderio”[7] e della volontà. “La poesia è una visione del mondo raggiunta con uno sforzo, talvolta estenuante, della volontà”[8]. Fatica “del vivere col cuore divorato contratto espanso dilatato in sangue”, perché “le aperture del sangue e quelle del senso sono le stesse”[9] . Un senso che non è più solo ideale e un corpo che non è più solo sensuale. Senso che libera il corpo e corpo che libera il senso. Corpo sensoriale e senso corporale. È nel corpo che si ridisegnano i confini del senso, mai definitivamente perduto[10] perché nascosto nella parola che qui manca per riaffermarlo: desiderio.“Mani mi ridisegnano i confini da nuove agrimensure ritemprata”, a riaffiorare il desiderio sopito avido di vita e di parole e di respiri soffocati da respiri. Solo il nudo desiderio che s’interna.
“il sangue fonda e l’addolcisca amore
di me sigillo imprimi sul tuo cuore.”
[1] Vincitrice del Premio di Letteratura «i miosotìs» – intitolato a G. Mazzacurati e a V. Russo – IVa Edizione – 2009/10
[2] F. Guattari, Sessantacinque sogni di Franz Kafka, Cronopio
[3]J. Derrida, La doppia seduta, in La disseminazione, Jaca Book
[4] J. Derrida, Glas, Bompiani
[5] E. Sanguineti, Laborintus, Feltrinelli
[6] J. Cocteau, La voce umana, Einaudi. “E ho fatto un sogno. Ho sognato la realtà: mi sono svegliata di soprassalto felice che fosse un sogno, e quando mi sono resa conto che era vero, che ero sola, che non avevo la testa sul tuo collo e sulla tua spalla, e le mie gambe fra le tue, ho sentito che non potevo, che non potevo vivere…”
[7] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi
[8]Jean Genet, Notre – Dame – des – Fleurs, Folio Gallimard
[9]J. L. Nancy, Corpus, Cronopio
[10] J. L. Nancy, Ivi. “Siamo nel dolore, perché siamo organizzati per il senso, e la sua perdita ci incide, ci ferisce. Il dolore, però, non dà senso alla perdita, così come non dà senso al senso perduto. Ne è soltanto la lama, la bruciatura, la pena.”
[alfredo riponi]